sabato 20 maggio 2023

Cosa c'entra l'indifferenza con Reich?

 Certo in un blog sulla psicoterapia sembra strano che ci si possa esprimere sull'indifferenza senza relativizzarla ad un processo psicoterapeutico. Viene da chiedersi se sia normale essere indifferenti, e se è una patologia o se comunque un disturbo, in quale categoria relegarlo? 

Ma allora, in linea col desiderio di scrivere sull’indifferenza, ci si potrebbe chiedere sul senso di questa energia dell’indifferenza. E' veramente quello dell'indifferenza un atteggiamento derivante dall'assenza di energia o non è piuttosto un atteggiamento derivante da una perversione energetica?


Normalmente l'energia, come la vita, non passa da un essere all'altro. Essa è trasfusa da un organismo all'altro nel senso che è attivata allo stesso modo in cui è attivata nell'organismo originale. In pratica potremmo dire che la vita è una riproduzione frattalica. È un clone matematico. La vita appartiene alla vita; non è regalata da nessuno a nessun altro né alcuno è veramente debitore di qualcun altro per la vita che lo vive. È dato dalla vita alla vita non da qualcuno a qualcun altro. 

Ma la spinta, l'intenzione che vive dentro di noi e che in qualche modo tende ad uno scopo ben specifico, quella viene da qualche altra parte; viene dal nostro passato, dalla combinazione di eventi che hanno costituito il nostro carattere, e che con questa indifferenza forniscono alla nostra vita in questo momento il senso specifico che la colora.  

E quando questo senso non c'è, vuol dire che qualche altra cosa dentro di noi, qualche altro senso, è subentrato per impedirlo.


Strano a dirsi in un contesto terapeutico, ma nella psicoterapia reichiana non è contemplata l'indifferenza. È contemplato esattamente il suo contrario; è prevista la partecipazione viscerale spontanea, istintiva che con tecniche e strategie adatte, quindi con l'analisi degli aspetti cognitivi e sociali adeguati, riesce a realizzare un comportamento adeguatamente modulato dalle strategie apprese nel gruppo di appartenenza. 

La realizzazione di tutto ciò è indice di partecipazione. 

Quando subentra l'indifferenza non è necessariamente vero che manca qualsiasi senso della vita. Rimane il senso personale dove si resta indifferenti per economia, perché fa comodo, perché è più semplice, per uno strano senso di narcisismo per il quale si rimane aggrappati, si rimane appesi alla salvaguardia di un senso di sé assolutamente egocentrico. 

Da questo punto di vista non è assolutamente vero che l'indifferenza comporti una tranquillità fisico chimica. Come non è vero che le persone indifferenti siano liberi da problemi psicosomatici.


Le asme, le aritmie, i bruciori di stomaco, le ansie, gli attacchi di panico, le crisi di insonnia, gli aspetti anoressici e bulimici, sono tutte manifestazioni che continuano rivelarsi nei caratteri e nelle personalità indifferenti. 

Spesso nelle persone indifferenti quello che maggiormente si riscontra è proprio la pressione alta, uno strano squilibrio vagale. È indice di un controllo quasi arcaico, automatico, che è diventato strutturale nella dinamica della personalità. Non ci si accorge nemmeno più di controllarsi, non c'è sforzo fisico o psichico tendente a distrarre da quello a cui si sta assistendo. L'indifferenza è diventata parte costitutiva della muscolarità, per cui gli occhi, la testa, il collo, le spalle, tutto il complesso dell'organismo si configura partecipando ad un atteggiamento di indifferenza. Quando accade di accorgersi di essere spettatori di un evento increscioso, tutto l'organismo partecipa alla distrazione, alla spinta organizzata per indurre l'organismo a guardare da un'altra parte. 


Allora è evidente che anche in questo caso, anche con l'atteggiamento dell'indifferenza la psicoterapia può fare molto. Intanto aiutando a capire che l'indifferenza non è un sentimento né un'emozione ma un atteggiamento per realizzare il quale le emozioni e i sentimenti sono stati silenziati (siamo bravi in questo per salvaguardare la nostra tranquillità).

Con la relazione terapeutica si può riscoprire dentro di sé il gusto dell'interessere, il senso della partecipazione sociale, il desiderio dell'appartenenza, il bisogno dell'aiutare per essere aiutati, e smettere di essere spaventati dalle richieste e dai bisogni che possono essere reciprocamente espressi; una vera relazione umana in un ambiente/spazio protetto può assumere il senso di un lavoro psicoterapeutico che va a ricostruire nel rapporto duale la ridefinizione di esseri umani.


Giuseppe Ciardiello

martedì 16 maggio 2023

La malattia dell'indifferenza

 Stavo pensando ad un libro che ho letto un po' di tempo fa. È un libro di Yalom ("Psicoterapia Esistenziale", Irvin D. Yalom, Neri Pozza Editore, 2019) in cui parla nello specifico della condizione della nostra esistenza per la quale, quando veniamo al mondo, è come se entrassimo in una sala cinematografica. Siamo gli ultimi ad entrare perché gli ultimi nati. Mano a mano che passano gli anni, i nostri posti cambiano e ci avviciniamo sempre di più allo schermo liberandosi quelli a noi davanti. Fin quando poi, arrivati ai primi posti, in prossimità dello schermo, ci tocca uscire dalla sala.


Non è solo l'occasione del compleanno (70 anni) a portarmi a questo pensiero. Credo che sia l'avvicinarsi dello schermo, l'accorgermi giorno dopo giorno che sempre più precipitosamente si avvicendano i giorni e il tempo che mi rimane è molto meno di quello già trascorso. Sono sempre più vicino al momento in cui anch'io mi alzerò per uscire da questa sala.

Forse a quest'età ci può stare il fare un po' il resoconto della propria vita. Mi chiedo allora se ho impegnato bene tutto il tempo che era a mia disposizione. Ed è stato leggendo 'La nuova manomissione delle parole' di Gianrico Carofiglio (Feltrinelli, 2021) che ho potuto essere generoso nei miei stessi confronti e donarmi un piccolo plauso riconoscendomi uno sforzo alla coerenza e all'onestà intellettuale.


Ho capito che l'inganno più grosso che si può realizzare nella propria esistenza, è coltivare l'idea di potersi assolvere solo perché ci si è tenuti fuori dalla mischia.

Quest'idea è sostenuta da un vero rivoluzionario che in questo libro Carofiglio riprende pari pari. Si tratta di uno scritto di Antonio Gramsci del 1917 il cui titolo è 'Odio gli indifferenti' e che apparve nella sua rivista “La Città Futura":

Odio Gli indifferenti. Credo come Federico Hebbel che “Vivere vuol dire essere Partigiani”. Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Che vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.
Le indifferenza è il peso morto della storia. È la palla di piombo per il novatore, è la materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti, è la palude che recinge la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde, meglio dei petti dei suoi guerrieri, perché inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scora e qualche volta li fa desistere dall'impresa eroica.
L'indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. E la fatalità; e ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che si ribella all'intelligenza e la strozza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, il possibile bene che un atto eroico (di valore universale) può generare, non è tanto dovuto all'iniziativa dei pochi che operano, quanto all’indifferenza, all'assenteismo dei molti. Ciò che avviene, non avviene tanto perché alcuni vogliono che avvengano, quanto perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia fare, lascia aggruppare i nodi che poi solo la spada potrà tagliare, lascia promulgare le leggi che poi solo la rivolta farà abrogare, lascia salire al potere gli uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. La fatalità che sembra dominare la storia non è altro appunto che apparenza illusoria di questa indifferenza, di questo assenteismo. Dei fatti maturano nell'ombra, poche mani, non sorvegliate da nessun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa. I destini di un'epoca sono manipolati a seconda delle visioni ristrette, degli scopi immediati, delle ambizioni e passioni personali di piccoli gruppi attivi, e la massa degli uomini ignora, perché non se ne preoccupa. Ma i fatti che hanno maturato vengono a sfociare; ma la tela tessuta nell'ombra arriva a compimento: e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia che un enorme fenomeno naturale, un'eruzione, un terremoto, del quale rimangono vittima tutti, chi ha voluto e che non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e che indifferente. E questo ultimo si irrita, vorrebbe sottrarsi alle conseguenze, vorrebbe apparisse chiaro che egli non ha voluto, che egli non è responsabile. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi anch'io fatto il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, il mio consiglio, sarebbe successo ciò che è successo? Ma nessuno o pochi si fanno una colpa della loro indifferenza, del loro scetticismo, del non aver dato il loro braccio e la loro attività a quei gruppi di cittadini che, appunto per evitare quel tale male, combattevano, di procurare quel tal bene si proponevano.
I più di costoro, invece, ad avvenimenti compiuti, preferiscono parlare di fallimenti ideali, di programmi definitivamente crollati e di altre simili piacevolezze. Ricominciano così da loro assenza da ogni responsabilità. E non già che non vedano chiaro nelle cose, e che qualche volta non siano capaci di prospettare bellissime soluzioni dei problemi più urgenti, o di quelli che, pur richiedendo ampia preparazione e tempo, sono tuttavia altrettanto urgenti. Ma queste soluzioni rimangono bellissimamente infeconde, ma questo contributo alla vita collettiva non è animato da alcuna luce morale; è prodotto di curiosità intellettuale, non di pungente senso di una responsabilità storica che vuole tutti attivi nella vita, che non ammette agnosticismi e indifferenze di nessun genere.
Odio gli indifferenti anche per ciò che mi dà noia il loro piagnisteo di eterni innocenti. Domando conto ad ognuno di essi del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. È sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime. Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze virili della mia parte già pulsare l'attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c'è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano nel sacrifizio; e colui che stava la finestra, in agguato, voglia usufruire del poco bene che l'attività di pochi procura e sfoghi la sua delusione vituperando il sacrificato, lo svenato perché non è riuscito nel suo intento.
Vivo, sono partigiano. Perciò odio che non parteggia, odio gli indifferenti.

A questo punto Carofiglio continua citando la frase di una canzone di Bob Dylan che alcuni anni dopo, molto più sinteticamente, dicono la stessa cosa:

How many times can a man turn is head/pretending that he just doesn't see

(Quante volte un uomo può voltare la testa facendo finta semplicemente di non vedere.)

Giuseppe Ciardiello

martedì 18 ottobre 2022

Aggressività e violenza. Una vita fa, avevo quattordici anni...

 

Avevo quattordici anni quando, scoperto Reich (l’allievo di Freud che ideò la Vegetoterapia), scoprii qualcosa che sentivo vivo e chiaro nell’animo: l’aggressività che mi pervadeva non era naturale ma era la risposta a quanto accadeva fuori di me. 

Ero un adolescente insoddisfatto. Infagottato in un corpo più grande e appariscente di me, mi sentivo strano e immaturo, per non dire incapace; e questo mi frustrava. Mi rendeva insoddisfatto di qualunque cosa.

Avevo qualche abilità! Mi piaceva leggere e questo mi rendeva più analitico dei ragazzi della mia età. Mi piaceva narrare storie. A scuola, andavo bene in italiano!

Ma ero arrabbiato.

Reich spiegava, a chi lo leggeva, che la rabbia non era riconducibile a un istinto innato. 

Esisteva sì, la libido, ma questa era riconducibile a un’istanza piuttosto che a un istinto. Che nell’uomo non esisteva l’istinto, come quello degli uccelli per intenderci, per esempio le rondini che sembrano ingegneri quando costruiscono il nido, senza essere andati all’università.

Non so se avete mai visto i nidi che costruiscono gli ‘Inseparabili’. Quei pappagallini verdi che a Roma hanno invaso tutte le ville e alcuni parcheggi arredati da grandi alberi. Sono nidi in condominio, enormi, con le entrate nelle parti inferiori e laterali, forse per evitare che la pioggia li allaghi.

Quello è l’istinto; costruiscono quei nidi ‘istintivamente’. Ad un certo punto dello sviluppo si accoppiano e, scattato qualcosa che dà l’avvio, la coppia comincia a costruire il nido conoscendo a priori la tecnica, che è sempre la stessa, migliore.

Noi uomini, alla nascita, non sappiamo nemmeno camminare e per imparare ad andare in bicicletta dobbiamo aspettare diversi anni. Qualcuno l’impara mai!

La nostra abilità sta nel saper imparare. E l’apprendimento non è un istinto ma una facoltà mentale!

Le facoltà mentali, si sa, sono condizionate dalle emozioni così, se siamo frustrati, insoddisfatti, scontenti, impariamo presto o a sopportare o a reagire aggredendo o a scappare o a irrigidirci in un rifiuto mal espresso. Dipende dai campioni di comportamento da cui abbiamo potuto imparare. Dipende dai genitori, dagli amici, dagli insegnanti che appaiono nel corso della nostra esistenza. Dipende dai maestri che ci insegnano a gestire la rabbia o a costruire un buon Io.

Così qualche decina di anni fa ho incontrato il libro di Ammon Gunter: ‘La dinamica di gruppo dell’aggressività’, Astrolabio, 1970.


Quando è uscito questo libro avevo ventisette anni. Disorientato da una realtà che non regala niente, mi stavo confrontando con un Io che nuotava ancora in alto mare.

Questo dice Ammon: ‘Soltanto chi è adattato nei confronti del proprio Io, nel senso che riconosce l’identità del proprio Io ed il proprio valore, saprà anche delimitare se stesso nei confronti di un altro Io rispettando e lasciando intatta l’altra personalità in quanto diversa ed autonoma; solo una persona simile sarà libera da una attrazione simbiotica e dall’attesa e dalla richiesta inconscia che l’altro corrisponda completamente ai propri desideri e che, dal punto di vista psicoanalitico, sia una specie di estensione del proprio Io.

Un dialogo costruttivo è possibile soltanto se si riconosce e si lascia intatto l’altro e, vorrei aggiungere, soprattutto il più debole.’. (Ammon, 1970, p. 33)

Soltanto chi si sente integro (tutto intero), ben formato e non teme di perdere parti di sé, riesce a riconoscere l’altro nella sua integrità e riesce a comunicargli le informazioni di cui è in possesso senza lederlo nella sua identità e senza toccare la sua paura d’essere cambiato.

Ma io ero incerto e arrabbiato. Frustranti le mie relazioni, anche intime, si improntavano al riscatto, in risposta al bisogno di ‘avere’ si coloravano del desiderio del potere (non della potenza, direbbe qualcuno un pò polemicamente). Non lo sapevo, non me ne rendevo conto ma la mia aggressività spesso si manifestava come violenza anche nei miei desideri sessuali e non. Desideri che stentavo a riconoscere come sete d’amore e bisogno di riconoscimento.

Il libro di Ammon descrive in maniera molto più dettagliata da quanto espresso da Reich: ‘In vent’anni di esperienze ho avuto ripetutamente occasione di osservare nei miei pazienti processi distruttivi rivolti contro se stessi o contro l’ambiente. … Non sono però riuscito a trovare tracce di un istinto di distruzione o di morte innato, costituzionale. Ciò che poteva sembrare un simile istinto di distruzione, poteva trovare una spiegazione nella psicodinamica e nella storia della vita del paziente. … A mio avviso l’aggressività distruttiva va sempre intesa come una reazione alla frustrazione.’ (id., p. 11)

La repressione reprime tutte le forze, anche quelle semplicemente espressive e amorevoli. Ogni repressione è violenza ma questa chiarezza, pur colpendomi molto, non si definì in maniera incisiva. Ma credo che non avvenne neanche nei colleghi che questo libro hanno letto perché nessuno me ne ha mai parlato. O io non ho mai capito?

Come mai? Come è possibile che una dichiarazione così evidente non riceva l’importanza che riveste nemmeno in ambito reichiano dove si parla tanto di amore, sesso e energia?

È un libro emarginato forse perché mette in discussione l’ideologia dominante e il punto di vista di un personaggio dalle dimensioni di Freud?

Occorre dare un senso a questa deriva, se di deriva si tratta ancorché sociale: ‘L’esperienza mostra che l’asservimento ad una ideologia costituisce spesso l’ostacolo più difficile per la psicoterapia e che può addirittura renderla impossibile. A mio avviso la dinamica dell’ideologia è affine alla dinamica del pregiudizio. (Id., p.16).

Domanda: esiste un pregiudizio nei confronti dell’ideologia freudiana?

Difficile negarlo… I cultori della teoria reichiana si sono sempre sentiti un po’ come i fratelli piccoli di Freud. Un pò impacciati abbiamo voluto definirci Analisti forse perché la psicoterapia ci andava stretta. Diciamoli pregiudizi di contorno, come le verdure che non contano o che apparentemente non sono la sostanza. Ma comunque pregiudizi.

L’aggressività distruttiva, che per Ammon si differenzia da quella costruttiva (ad-gredi), si manifesta specialmente nei gruppi, e quindi nella società sotto forma di guerre, quando la creatività è inibita o soppressa: ‘Perché la psicoterapia, sia individuale che di gruppo, abbia successo, è molto importante che venga data al paziente la possibilità di manifestare la propria aggressività. Solo se gli è consentito di manifestare la sua aggressività, sia nel senso della distruttività che nel senso del costruttivo ad-gredi, la terapia potrà dare risultati positivi.(id., p.18). Almeno in terapia, sì, cerchiamo di essere onesti e sinceri. Siamo aggressivi quando mangiamo, quando giochiamo, quando vogliamo essere bravi, quando gareggiamo per dimostrare di sapere più degli altri. Lo siamo nelle manifestazioni d'amore e in quelle d'amicizia. 

Ma sappiamo anche distinguere la violenza?

L’aggressività distruttiva preferisco chiamarla violenza che si può esprimere nei comportamenti ma anche nelle parole, nei gesti, nel modo di guidare l’auto e nel dare gentilmente (?) la precedenza. Perciò quando la guerra s’impone in una società è probabile che anche una qualche forma di espressività creativa è stata sacrificata e che, anche nei gruppi medi o piccoli che siano, l’informazione ha smesso di rivestire la funzione per  cui è stata creata (la messa in comune del sapere). In tal caso siamo già davanti all’espressione di qualcosa di alieno perché reattivo rispetto alla nostra integralità. Quell’istanza che definiamo NOI, non si accorge dell’estraneazione e del conflitto che lo vive. Noi non ci accorgiamo di vivere in conflitto e quello che striscia sotto la pelle è un IO folle fatto solo di reazioni e pensieri che si costruiscono al di là della consapevolezza. Nello sguardo appare un Io rabbioso e carente, malato di un desiderio di potere insoddisfacibile, perché costituzionalmente vuoto, che nelle relazioni cerca solo il riscatto.

In termini psicoanalitici si può dire che nell’aggressività distruttiva l’uomo non è consapevole dei suoi motivi. L’aggressività sta sotto il dominio e il controllo dell’Io, mentre la distruttività non lo è. L’aggressività non presenta conflitti, mentre la distruttività è generata da un conflitto. Per finire vorrei presentare un modello della psicodinamica dell’aggressività distruttiva, basato sull’esperienza che ho fatto su alcune centinaia di sofferenti psichici durante gli ultimi vent’anni.

Nello sviluppo infantile di questi pazienti ho riscontrato la seguente dinamica familiare: la sessualità infantile precoce era stata respinta dai genitori, e come essa l’ad-gradi, l’esplorazione e la sperimentazione della prima infanzia. … In sintesi si può dire che l’aggressività distruttiva impedisce ed inibisce qualsiasi tentativo di autorealizzazione, di attività lavorativa e di amore. L’ad-gredi invece consente l’attività, l’amore e quindi l’autorealizzazione. (id. p.22)

In questi strani tempi di minacciosi preludi catastrofici, come molti, anch’io ho l’impressione di star vivendo l’esordio di una nuova era. Forse qualcosa sta cambiando davvero nei cuori trepidi dell'umanità.

Mi capita sempre più spesso di incontrare persone dolci, che non aspirano al potere e che mostrano una forza intima definita e decisa. Che perseguono con rettitudine principi decorosi di amicizia e donatività malgrado la disarmonia spicciola quotidiana in cui ci si sperimenta e che ci scopre preda inerme. 

Che poi, nonostante questi cambiamenti relazionali, capiti ancora che anche in questi contesti si esprimano ogni tanto lotte di potere, mi sembra normale e, senza voler rinnovare alcuna caccia alle streghe, forse dovremmo tutti imparare dal Dalai Lama e vedere in questi piccoli mostri, oltre agli strenui tentativi della società malata di asservirci, i maestri che ci mettono alla prova per fortificarci e rinsaldarci nella convinzione di stare agendo nella giusta direzione.

Perciò nei conflitti, che sorgono nelle relazioni e nei gruppi, non bisogna sprecare energie nella reazione ma cercare di comprendere cosa nella nostra comunicazione non è andata per il verso giusto.

… e correggerla!



PS: ma Ammon non è il solo ad avere scritto di istinto, aggressività e violenza. Un altro bel libro, un pò più intenso e mirato a diverse ricerche sull'aggressività, anche quelle che studiano i comportamenti aggressivi di persone intermediari di richieste altrui (coloro che sono aggressivi perché gli viene chiesto da una persona di rango gerarchico superiore), è: 'Aggressività', di Mauro Fornaro del 2004 edito da il Centro Scientifico Editore.

Solo un piccolo passo di questo libro a sostegno di quanto sostenuto da Ammon e Reich: 'Anzitutto l'istinto va distinto dal semplice impulso, o spinta, come ricorda Eibl-Eibelsfeldt, essendo questi altri "meccanismi motivanti", che spingono dall'interno dell'organismo e richiedono una qualche azione evolutiva. L'istinto appare invece un programma o modulo comportamentale a disposizione dell'individuo che, una volta innescatosi in certe condizioni scatenanti, prevede sequenze d'azione prefissate; inoltre esso è preformato, nel senso che fin dalla prima esecuzione si manifesta nella sua forma completa e definitiva (e non per aggiustamenti successivi della sequenza comportamentale); infine, generalmente, l'esecuzione è piuttosto rigida, stereotipata, piegandosi scarsamente alla variazione delle circostanze ambientali. Pertanto l'istinto, se per definizione ha le caratteristiche testé elencate, è senz'altro innato, ereditato e selezionato nella filogenesi. (p.56)

Ma veniamo alla rivalutazione umana per quanto concerne alle reazioni istintive nell'uomo.

...Pure nell'uomo esistono comportamenti istintivi, ad esempio le reazioni di paura del bambino intorno all'ottavo mese di fronte all'estraneo, l'atteggiamento di difesa già alla seconda settimana di vita, quando gli si mostra su unp scherma una macchia che, ingrandendosi, dà l'illusione di un oggetto che gli viene addosso.

La questione appropriata nel caso dell'uomo è, secondo noi, se si può includere nella definizione di istinto l'esecuzione dei tipi di comportamento aggressivo di cui sopra: la caccia e comunque l'uccisione di animali a fini alimentari; i conflitti per il territorio, per l'accaparramento di beni (cause prime di lotte tra singoli, tra gruppi e di guerre tra umani); le contese per l'accoppiamento sessuale, le contese per la gerarchia nel gruppo (carriera, posizione di comando, di leadership nella società) ecc. Che ci siano spinte e motivazioni nella direzione di questi tipi di comportamento, non c'è dubbio; che la loro esecuzione sia in toto dettata da programmi filogenetici, preformati e rigidi, quali sono gli istinti, è assai improbabile. Tanto grande infatti è il peso dell'apprendimento e della cultura nell'esecuzione di questi tipi di comportamento, tanto grande poi è la variabilità nelle modalità esecutive individuali e di gruppo. inoltre le circostanze innescanti non paiono così cogenti come nel caso dei comportamenti analoghi nelle specie animali. (p. 57)

Quindi, in sintesi:

In questo senso non c'è un istinto aggressivo, perché "non esiste una regola di condotta universale nel comportamento competitivo e predatorio" (Wilson, 1975: Sociobiologia. La nuova sintesi., Zanichelli, 1979). Piuttosto, a seconda delle circostanze e delle convenienze, si attua l'uno piuttosto che l'altro programma comportamentale. E in varie occasioni può essere più utile , all'individuo o al suo gruppo, rinunciare all'aggressione, o al contrario esercitarla nelle forme più aberranti. (p. 60)


Giuseppe Ciardiello

giovedì 30 giugno 2022

Psicoterapia o Analisi rileggendo 'Introduzione alla Psicoterapia Sensomotoria'

 


Psicoterapia e analisi

 

Il fatto che la Vegetoterapia sia derivata dalla psicoanalisi non giustifica l’utilizzo moderno del termine ‘Analisi Reichiana’ quando vogliamo fare riferimento ad essa. Quello che il termine aggettivato, Analisi Reichiana, sembra intendere è differente dall’uso terapeutico della Vegetaterapia che, per conservare le sue caratteristiche originali di tecnica terapeutica, necessita di riferimenti epistemici differenti da quelli cui si ricorre in applicazione analitica. A meno che non si voglia intendere qualcosa di diverso che allora andrebbe esplicitato.

Spesso ho cercato di trovare le parole per esprimere il rammarico per la perdita di valore terapeutico dell’Analisi Reichiana quando esclude dal suo repertorio le conoscenze che potrebbero derivarle dall'indagine delle strutture mentali. Purtroppo non sono mai riuscito a trovare il nesso con quanto sentivo di stare vivendo che era sempre più orientato all'individuazione nel corpo delle stretegie mentali.

Oggi voglio provare a rendere pubblico questa opinione avvalendomi di alcune pagine di uno scrittore che purtroppo ha concluso la sua vita troppo presto. Nel suo breve tempo ha però trovato l'estro di efficaci parole per raccontare gli intenti del lavoro cui si fa normalmente riferimento quando si parla di terapia psichica (psicoterapia). Il lavoro psicoterapeutico è quello per cui molti, come me, si laureano in psicologia clinica. Sperano di imparare ad usare la relazione, il rapporto e il contatto per provocare un cambiamento nel modo di comprendere e agire il comportamento delle persone, senza usare necessariamente strumenti chimici, biologi o mentali.

Nell'analisi, si dice, lo scopo non è il cambiamento. Questo, seppur si verifica, accade solo incidentalmente e non riguarda pertanto le preoccupazioni dell'Analista. Ciò su cui si lavora è l'aspetto esistenziale, quasi filosofico della vita, trovando motivazioni epistemiche nel modo di intendere la vita, la propria malinconia, a volte il disamore o, pecca valida per qualunque tema problematico, il non 'saper amare'.

In terapia il cambiamento del comportamento, condizionato dagli stati mentali, è qualcosa che appartiene alla regola e alla norma dell’esistenza umana per cui, nelle relazioni, bisogna ritenere che l’essere umano, fin dal suo concepimento, impara e disimpara a comportarsi privilegiando quei comportamenti, mentali e corporei, più vantaggiosi nell’economia della sopravvivenza.

Il lavoro psicoterapeutico corporeo si pone allora strategicamente sulla linea dei cambiamenti comportamentali e relazionali, con l’intento deliberato di cogliere quelle strategie mentali disfunzionali al comportamento attuale. Solo che le strategie comportamentali agite col corpo sono elaborate dalla mente per cui, il lavoro richiesto ad uno psicoterapeuta è quello di esplicitare sia i comportamenti evidenziati nell'agito sia le strategie mentali adottate dalla mente/cervello così da poterle contenere e modificare.

Ciò richiede anche amore e passione perché l’avventura relazionale è di per sé coinvolgente e quando la si usa professionalmente, ci si ritrova a camminare in bilico sulla lama di un coltello tra la professione e la vita privata e pubblica, tra l’etica professionale e il rispetto per le persone..

Ciò richiede anche una costante presenza mentale. Richiede la conoscenza del funzionamento cerebrale sia da un punto di vista biologico, con le sue molecole e connessioni nervose, sia mentale con i suoi processi, credenze, fedi, superstizioni ecc. Tale approccio richiede la conoscenza di tecniche derivanti da epistemi corrispondenti.

L’introduzione di termini ‘analitici’, che derivano più o meno esplicitamente dalla psicoanalisi classica che, per intenderci, fa riferimento al primissimo Reich quando ancora si pregiava di appartenere alla corrente freudiana, nell’impianto vegetoterapico non è mai servito a rafforzare strumentalmente la tecnica. Anzi si può dire che le manovre cosiddette analitiche, quando vengono agite nel modello vegetoterapico, assumono un aspetto malamente imitativo mancando di solito un training specifico adeguato.

Per questo credo che, quando è necessario insistere nella definizione aggettivale dell’analisi, come sembra aver deciso anche la Bioenergetica che si autodefinisce ‘Analitica’, l’analisi cui si fa riferimento deve essere intesa diversamente dalla psicoanalisi dinamica originariamente riferita a Freud. Ma se così stanno le cose allora andrebbe specificato e ben delineato il senso dell'approccio analitico inteso nel senso corporeo.

Nella narrazione che Giannantonio fa nel suo libro postumo della tecnica sensomotoria da lui utilizzata, ‘Introduzione alla psicoterapia sensomotoria’ edito dalla Alpes nel 2020, , credo si possa individuare sia il senso degli interventi psicoterapeutici sia un esempio circa i processi mentali cui risalire sia le eventuali modalità da adottare per individuare utili suggerimenti relativi agli epistemi e le ricerche da usare per restare fedeli allo spirito psicoterapeutico schiettamente corporeo.

Credo inoltre che questo orientamento sarebbe coerentemente impostato a quanto lo stesso Reich oggi privilegerebbe.

Giuseppe Ciardiello







domenica 25 luglio 2021

Comunicazione di Sé

 

Narrarsi e raccontarsi

Nello spazio del setting analitico la Vgt privilegia la lettura corporea al racconto verbale.

Questa preferenza non vuole significare che il comportamento verbale non sia considerato per niente.

Al contrario: si considera che, per qualunque narrazione di sé venga fatta in terapia, le emozioni ‘colorano’ le parole in modo specifico. Di conseguenza proprio quella coloritura emergente dalle emozioni, relative a  quello specifico contesto relazionale, sarà necessario leggere come se avesse una sua grammatica e sintassi.

E come le parole, anche gli ‘agiti’ (i comportamenti agiti) assumono gli stessi colori.

Nella consapevolezza dei pazienti che vogliono realizzare un desiderio, devono essere messi in luce i bisogni che reggono l’incontro e che si vestono, camuffandosi anch’essi, dell’arcobaleno dei colori emozionali.

In pratica in Vgt le parole sono viste come un altro modo per narrarsi, come un ulteriore comportamento comunicativo di tipo corporeo che, in pratica, non è dissimile da quello respiratorio o deambulatorio o gestuale.

Nel nostro contesto analitico le parole sono come perline infilate in una collana che viene composta e ricomposta ad ogni incontro per cogliere l’accezione di quel  un senso relazionale implicito specifico.

Per questo scopo sono usati tutti gli strumenti a disposizione e quindi gli spazi tra le perline, le perline stesse, la scelta della loro alternanza, la lunghezza della collana e tutti gli altri elementi contestuali considerati necessari per la realizzazione dell’effetto finale.

Fin quasi dall’inizio della sua attività di vegeto terapeuta, Navarro esprimeva la bontà di un intervento capace di curarsi anche dell’aspetto paraverbale. Rifacendosi però un po’ troppo fedelmente alle espressioni di Reich dell’’Analisi del Carattere’, nelle sue osservazioni mancano note relative alla risposta del terapeuta: il controtransfert. Sembra quasi che il comportamento del terapeuta sia dato per, implicitamente, sempre corretto a patto che venga considerato l’aspetto paraverbale dello strumento comunicativo.

Nella realtà, e restando ancora sulla metafora della collana, il paziente non vuole semplicemente sapere come ha infilato le perline e con quale e quanta maestria l’abbia fatto. Vuole anche sapere se il suo regalo è apprezzato, se è piaciuto e se lui è quindi capace di produrre qualcosa per sostenere l’intimità della relazione. Se è abile nell’approccio relazionale e se ha imparato a curarsi di sé e dell’altro nei modi dovuti (necessari nella cultura di appartenenza).

In pratica, nella risposta del terapeuta è in gioco la validazione del senso d’identità del paziente e il suo senso di Sé.

L’apprezzamento e le considerazioni (le risposte) che il paziente chiede in formati impliciti al terapeuta sulla propria narrazione (circa la sua vita), non possono essere espresse verbalmente per il motivo molto semplice che la narrazione non è una collana. Non si può confessargli apertamente della noia o dell’interesse che la sua narrazione ha suscitato, della paura che ha smosso o del piacere narcisistico che si è colto o della speranza che ha suscitato e delle fantasie prodotte e del loro potenziale energetico emozionale generato. Queste risposte rientrano nel catalogo del ‘personale’ del terapeuta e vengono di norma taciute. Anche se, una volta represse, non è che questi risvolti siano cancellati. Essi ricicciano nascondendosi negli ‘agiti’ del terapeuta, nei suoi modi di proporre l’acting, nei modi che ha di avvicinarsi o allontanarsi dal paziente, dalle parafrasi e intercalari usati nelle risposte o dal modo che avrà di usare un massaggio prima dell’esecuzione dell’acting successivo o nei diversi messaggi impliciti che ‘fantastica’ d’inviare per motivi del tutto diversi dai loro veri significati.

Ogni intervento, una volta effettuato, dev’essere sottoposto a revisione: vanno ricercati tanto i riflessi del controtransfert inevitabile quanto le espressioni di controtransfert più massicce. Senza eccezioni, il terapeuta scoprirà almeno un aspetto dell’intervento che non lo soddisfa. Potrebbe trattarsi di qualcosa che ha omesso, odi qualcosa che non ha espresso nella maniera giusta. Potrebbe essere una parola scelta male, o un segmento di materiale interpretato in modo falso. Potrebbe darsi che inavvertitamente abbia aggiunto un’osservazione personale o una parte di materiale che il paziente non aveva comunicato. Potrebbe anche aver fatto un intervento troppo lungo, oppure troppo breve.’ (R. Langs, ‘Interazioni. L’universo del transfret e del controtransfert’, Armando, 1988).

Nell’ambito del setting vegetoterapeutico qualunque tipo di agito è da considerarsi un atto comunicativo per cui ogni elemento, transferale o controtransferale, implicito o esplicito, è comunicazione. Lo sono le parole e lo è il comportamento quando asseconda il desiderio di concludere in anticipo un acting oppure quello che insiste nel proseguimento dello stesso, anche quando si manifestano difficoltà e sofferenza. Lo è quando si propone un acting e quando non lo si propone perché si decide per altro. Lo è ogni decisione presa o non presa!

Le risposte comportamentali che stanno dietro gli atteggiamenti del terapeuta sono evidentissime per i pazienti. Sono specialmente evidenti  nel modo in cui i terapeuti propongono gli acting, di fase e di livello, nei ‘momenti di passaggio’. Nel vissuto di ‘transito’, da un acting all’altro, c’è il modo con cui il terapeuta valuta il tipo di acting, la modalità con cui proporlo e, nelle scansioni temporali con cui proporlo, si nasconde tutto il corpo delle dimensioni psicologiche che il terapeuta vive nei confronti del paziente.

All’epoca del cenno che andremo a leggere di Navarro, sull’uso delle parole in terapia, si era all’inizio dell’applicazione generalizzata della sua sistematizzazione della Vgt. Forse non era ancora maturata l’idea di dover fare attenzione, oltre che alle parole e agli agiti del transfert, anche al verbale e al paraverbale del terapeuta come aspetti che caratterizzavano il suo, di  ‘agito’?

Può darsi!

Però il fatto è che nel corso degli anni in vegetoterapia questa mancanza non è stata colmata e il controtransfert, pur ammesso, non sempre è sempre stato considerato agire nel setting allo stesso modo del transfert. La Vgt sembra assumere un valore oggettivamente miracolo indipendentemente dal terapeuta.

In realtà, come in ogni psicoterapia, anche in Vgt ambedue gli eventi, transfert e e controtransfert,  sono eventi di processo corporeo che emergono negli agiti dei componenti la coppia terapeutica, piuttosto che nelle parole, nel momento in cui queste due persone interagiscono. Né prima né dopo.

Così contestualizzati diventa evidente che ambedue i processi sono imprevedibili. Ma appare anche evidente che, proprio perché non possono essere controllati, si debba essere motivati ad esercitarsi alla loro costante osservazione in modo da diventarne sempre più consapevoli e presenti al loro manifestarsi.

Giuseppe Ciardiello








martedì 20 luglio 2021

Sesso Amore Perversione in un articolo di Mirella Origlia

 

‘Amore e perversione’ di Mirella Origlia.

 

Periodicamente riprende lo scaricabarile, tra scuola, educatori, genitori e agenzie sociali, su chi dovrebbe occuparsi dell’educazione sessuale dei giovani.

Le ricorrenze storiche di quest’argomento si sono presentate come delle tappe sociali in cui si è realizzata, con molta fatica, quella libertà di divorzio, di aborto e di espressione della propria identità sessuale che però, con ancora molto vigore, le tendenze distorte dell’umanità cercano di cancellare.

L’evento Covid19 ha esasperato i conflitti evidenti e latenti.

Laddove ci si era abituati a trascorrere la maggior parte del tempo della propria giornata fuori casa, e ciò vale per le donne e per gli uomini, oggi ci si accorge che la condivisione forzata degli spazi familiari li rende meno intimi o troppo intimi facendoli diventare asfissianti. Inoltre, abituati alla più moderna tecnologia e alla crescente richiesta attentiva, in spazi temporali sempre più ristretti, richieste che diventano sempre più invasive e che annullano i limiti degli spazi personali, si diventa sempre più ‘bionici’ nel senso del dipendere cognitivamente e intellettualmente dalle macchine costruite.

Con quest’andazzo si sta trasferendo nel mondo virtuale anche il piacere, e la sessualità sta perdendo le sue caratteristiche di aggressività (da adgredior), affermatività, carnalità, intimità, modularità e delicatezza.

In questi quasi due anni di pandemia, le coppie che non hanno più rapporti sessuali sono aumentate del 38% (Ordine Psicologi Lazio: Webinar del 18/06/2021 tenuto da Valentina Cosmi dal titolo ‘Sessualità nella terapia di coppia’) e i giovani e giovanissimi (12/14 anni) che fanno uso di pornografia e premono reciprocamente per avere foto di nudo, sono passati dal 6% del 2015 al 18% del 2021 (fonte RAI Gabanelli, in coda al tg7 delle 20.00 del 19/07/2021).

Allarmati, si torna a parlare dell’educazione sessuale e di chi dovrebbe occuparsene rischiando ancora e ancora di tornare a parlare del sesso degli angeli o dell’accoppiamento delle farfalle.

L’educazione sessuale dovrebbe definire il piacere sessuale e la gioia di viverlo. Dovrebbe spiegare come ottenere la completa soddisfazione sessuale e da cosa può dipendere la sua facilitazione o l’incapacità e/o impossibilità a realizzarlo. Dovrebbe raccontare quali sono le fasi evolutive fisiche e mentali attraversate da ogni singolo maschio e da ogni femmina. Ripeterne le similitudini e le differenze. Gli sviluppi psicologici che accompagnano le esperienze e che possono giustificare gli evitamenti e le facilitazioni.

Ai bambini e ai giovani interessa poco come si accoppiano gli animali mentre da subito gli interessano i risvolti del desiderio provato nei confronti delle persone di diverso genere e le motivazioni delle diverse risposte vissute e sperimentate.

Malgrado tutta questa necessità si avverte molta reticenza a parlare del sesso e finanche nei diversi movimenti reichiani questo tema sembra ormai in disuso. La materia sessuale sembra demandata solo agli specialisti della genitalizzazione. Perciò colpisce trovare, nel n.1 del 1982 della rivista ‘Energia Carattere e Società’, nella rivisitazione vegetoterapeutica della perversione, alcuni spunti importanti per una corretta definizione del sesso e della sessualità.

I lavori di Origlia suggeriscono molti altri spunti che sono anche più mirati alla corretta interpretazione ed esecuzione della Vegetoterapia (Vgt). Per esempio ci si può accorgere di quanto, pur utilizzando la Vgt, Origlia tiene in grande considerazione il dialogo all’interno del setting e all’espressione verbale anche dell’interpretazione, con l’accortezza però, di lasciare che sia il paziente a interpretare la propria esperienza.

Il vissuto indotto dall’acting, e sperimentato dal paziente, non è separato dalla propria ideazione che può essere una fantasia o un ricordo. È in tale situazione cognitiva che s'inserisce l’acting (esercizio di Vgt).

Ancora, l’acting non nasce dal vuoto del setting ma è proposto da una persona (il terapeuta) che, assumendosi la sua responsabilità, si concede anche licenze specifiche frutto di esperienza e di sapere personale. Gli acting pur essendo sempre gli stessi, possono essere eseguiti diversamente e, inoltre, possono essere anticipati e seguiti da ‘atti’ comportamentali veri e propri da parte del terapeuta. Atti che hanno un valore interpretativo cui il paziente potrà dare voce.

È ciò che accade quanto la terapeuta appoggia la mano del paziente sul proprio diaframma suggerendogli implicitamente un tocco ‘intimo’, nel senso di profondo. Un con-tatto con una diversa temperatura, un diverso ritmo (respiratorio), una diversa possibilità di toccarsi con le mani ma anche con l’alito, con il proprio respiro, intimo e personale perché leggero, profumato e soggettivo (pag. 34). È questo il caso in cui si può parlare di trasmissione energetica che dimostra che, per lavorare con l’energia organistica, non è sufficiente l’uso della Vgt.

Allo stesso modo il concetto dei blocchi energetici non rimandano necessariamente a un costrutto idraulico rappresentante una diga che impedisce il libero flusso di questo liquido energetico. I blocchi sono un innalzamento di tensione muscolare che, oltre a rendere meno sensibili perifericamente, rendono anche i movimenti meno fluidi e più meccanici. La tensione costantemente trattenuta, per paura, vergogna e altre emozioni, assume una modalità di scarica di tutto/niente. Quando ci sono blocchi muscolari/cognitivi alla libera espressione della propria umanità, l’aggressività diventa distruttiva trasformandosi in odio, livore, invidia, competizione, riscatto. Questa trasformazione si realizza con la modifica dei ritmi respiratori (pgg. 36/37).

Il plurale della frase che precede non è un refuso ma la considerazione del fatto che l’organismo umano non respira solo con i polmoni ma anche con la pelle e con tutti gli altri organi che, ritmicamente, col respiro cercano di armonizzarsi (… anche quello del pensiero).

In pratica, essere naturali significa cercare un equilibrio con la natura che siamo e che ci vive e che, specialmente nella pratica sessuale e nella sessualità, esprime il piacere e la gioia di vivere che si riduce, molto semplicemente, nel sapere come fare all’amore perché ‘fare l’amore fa bene all’amore’.

Giuseppe Ciardiello








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